Breve commento al Documento del CNDCEC e della FNC.
Ancora un interessante contributo sui temi della compliance viene offerto dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti in un documento del 12 febbraio 2021 dal titolo “La disciplina del whistleblowing: indicazioni e spunti operativi per i professionisti”.
Il paper, frutto di uno studio condotto sul tema del whistleblowing con il contributo dell’ABI (Associazione Bancaria italiana), dell’AITRA (Associazione Italiana Trasparenza e anticorruzione) e di AODV 231 (Associazione dei Componenti degli Organismi di Vigilanza ex D.Lgs. 231/2001), offre un’interessante panoramica della normativa che disciplina la materia, sempre più attuale, delle segnalazioni di illeciti all’interno delle organizzazioni pubbliche o private.
Il contesto internazionale.
Sul fronte internazionale una delle novità più recenti sull’argomento è rappresentata dalla Direttiva 2019/1937, riguardante “la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione” emanata dal Parlamento Europeo con l’intento di uniformare il contesto regolamentare del whistleblowing, soprattutto con riferimento ad una più incisiva tutela dei segnalanti.
Il provvedimento, che dovrà essere recepito dagli Stati membri entro il 17 dicembre 2021, impone l’obbligo di istituire canali di segnalazione interni per tutte le organizzazioni pubbliche, tra cui i comuni con più di 10.000 abitanti, nonché per i soggetti privati che impieghino più di 50 dipendenti.
Il whistleblowing nel settore pubblico
Il contesto nel quale l’istituto del whistleblowing ha trovato in Italia la sua prima disciplina organica è quello del pubblico impiego.
Qui il riferimento è rappresentato dall’art. 54-bis del D.Lgs. 165/2001 (Testo Unico del Pubblico Impiego), introdotto dalla L. n. 190/2012 (meglio nota come “Legge Anticorruzione”), secondo il quale “il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnali al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione, o denunci all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa, avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinata dalla segnalazione”.
La segnalazione, dunque, deve riguardare fatti appresi nell’ambito delle attività condotte dal segnalante da cui può derivare un impatto sull’interesse affidato all’ente in seno al quale egli opera.
Si tratterà pertanto non soltanto di fatti di reato, ma anche (e soprattutto) di condotte di c.d. maladministration, appartenenti cioè al novero dei comportamenti che concretizzano un conflitto di interesse tra un funzionario pubblico e l’ente e che possono dar luogo a quelli che il documento in commento esemplifica in situazioni di abuso di poteri per l’ottenimento di vantaggi privati, di cattivo funzionamento e/o di inquinamento dell’azione amministrativa dall’esterno, di favoritismi o di atteggiamenti irregolari che compromettono la fiducia dei cittadini nell’imparzialità dell’amministrazione.
Organo interno competente a trattare la segnalazione sarà il Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) il quale, una volta avviata la relativa istruttoria, effettuerà una valutazione dei fatti anche mediante richiesta di ulteriori dettagli allo stesso segnalante o ad altri soggetti (es. uffici interni).
All’esito, se la segnalazione risulterà infondata,procederà alla sua archiviazione; al contrario, se la stessa apparirà meritevole di accoglimento – il RPCT richiederà alle funzioni competenti (es. all’Ufficio Personale) di assumere le iniziative conseguenti (quale potrebbe essere l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del segnalato). Egli, inoltre, avrà l’obbligo di trasmettere la segnalazione ad organi terzi (es. Autorità Giudiziaria o Corte dei Conti) cui, nel caso di specie, potrebbe spettare una specifica competenza rispetto all’evento denunciato (ad es. perché riferito a fatti di reato o a situazioni rilevanti sul piano della responsabilità erariale ecc.).
Per tutto l’iter procedurale conseguente alla segnalazione il RPCT dovrà assicurare la riservatezza dell’identità del segnalante attraverso l’osservanza delle cautele stabilite dalle procedure interne in materia di segnalazioni.
La garanzia della riservatezza, insieme alle tutele riservate al segnalante pubblico per scongiurare nei suoi confronti conseguenze ritorsive sul rapporto di lavoro (divieto di licenziamento, di sanzioni disciplinari, di demansionamento o di altre misure organizzative negative – art. 54-bis T.U. Pubblico Impiego cit.) rappresentano peraltro requisiti imprescindibili perché lo strumento del whistleblowing possa realmente assolvere alla funzione che gli è riconosciuta, quella cioè di agevolare l’emersione di situazioni di illegalità all’interno di un’organizzazione attraverso le denunce provenienti dal suo interno stesso.
Il whistleblowing nel settore privato
Con riguardo all’ambito privato, la disciplina di riferimento è ad oggi contenuta nell’art. 6 commi 2-bis, 2-ter e 2-quater D.Lgs. 231/2001 modificato dalla L. 179/2017, dove è appunto trattato il tema delle segnalazioni.
Qui, nello specifico, è previsto che i modelli 231 debbano prevedere uno o più canali di segnalazione che permettano a coloro che operano in seno all’ente di presentare “a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi del presente decreto e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte” (art. 6, co. 2-bis lett. a).
I canali, di cui almeno uno digitale (lett. b), devono assicurare la riservatezza del segnalante.
Allo stesso tempo è sancito (lett. c) l’espresso divieto di atti di ritorsione o discriminatori nei confronti del segnalante, accompagnato, da un lato, dall’obbligo per i modelli 231 di prevedere – nella parte riservata al sistema disciplinare – specifiche sanzioni per la sua violazione (lett. d) e, dall’altro, da espresse tutele per il segnalante sul piano del proprio rapporto di lavoro.
Più in particolare, in favore di costui è riconosciuta la possibilità di denuncia all’Ispettorato Nazionale del Lavoro – direttamente o mediante l’organizzazione sindacale che lo rappresenta – degli atti ritorsivi eventualmente realizzati in conseguenza della segnalazione da egli presentata (art. 6 co. 2-ter), nonché la nullità di ogni atto che incida sulla propria condizione lavorativa (licenziamento, sanzioni disciplinari, demansionamento, trasferimento ecc.) attuato per le medesime ragioni (art. 6 co. 2-quater).
Per il caso, infine, di segnalazioni infondate, in cui l’infondatezza dipenda da dolo o colpa grave del segnalante è stabilito (co. 2-bis, lett. d) che il sistema disciplinare contempli sanzioni nei riguardi del loro autore.
Discipline a confronto
Dall’esame delle disposizioni vigenti in materia si può trarre una valutazione comparativa tra la disciplina del whistleblowing nel settore pubblico e quella definita per l’ambito privato.
All’esito si potrà certamente convenire con la conclusione cui pervengono gli autori del documento in commento secondo cui “la tutela prevista in capo al dipendente pubblico sia più puntuale rispetto a quella prevista per chi opera nel settore privato” (par. 4.2, pag. 30).
La ragione di un tale esito risiede principalmente nel fatto che mentre l’operatività del whistleblowing nel settore pubblico, con le relative connesse tutele, è disposta direttamente dalla Legge (con la sua forza cogente), nel settore privato, invece, è rimessa al modello 231 che – sebbene abbia valenza esimente della responsabilità amministrativa – non è un presidio obbligatorio.
Conclusioni
Secondo l’opinione – condivisibile – degli autori del documento, Il tema del whistleblowing rientra a pieno titolo in quello più generale della compliance la cui cultura è ormai sempre più diffusa sia tra gli operatori sia pubblici che privati.
La maggiore attenzione che si registra sul punto è, invero, il frutto di una crescente consapevolezza da parte delle organizzazioni circa il ruolo che la conformità svolge nell’ambito della governance sia privata che pubblica, secondo un approccio che la considera non più quale “inutile dispendio di risorse economiche e umane” necessarie a “rispondere, almeno formalmente, alle crescenti richieste del legislatore e delle autorità di controllo” ma una vera e propria opportunità.
Un’opportunità che si traduce nella centralità dei controlli nell’ottica non tanto e non solo di garantire la mera aderenza alle normative applicabili al settore in cui l’ente opera, ma anche (e soprattutto) di assicurare un sistema di procedure e protocolli capace di far “aumentare il grado di efficienza della gestione, ridurre le perdite causate da eventi aleatori, ottimizzare l’impiego di risorse interne ed esterne, aumentare la conoscenza delle minacce/opportunità presenti sul mercato”.
Si spiega così la rilevanza assunta, sia a livello interno che internazionale, dai compliance programs quali strumenti di prevenzione dei rischi d’impresa.
La logica della prevenzione, in altri termini, diventa elemento strutturale della più ampia organizzazione dell’ente in funzione dei risultati (di business od istituzionali) verso i quali lo stesso è proiettato.
Non basta più, cioè, una governance fondata esclusivamente sul raggiungimento degli obiettivi a qualunque costo.
Diventa viceversa imprescindibile che tali obiettivi siano ottenuti attraverso una strutturazione dei processi fondata sulla correttezza e liceità dei comportamenti di chi li realizza e che rende gli stessi più efficienti e meno esposti a rischi.
In un simile contesto il whistleblowing rappresenta un tassello fondamentale del più ampio mosaico della compliance, non solo perché consente di intensificare i controlli e di far emergere comportamenti illeciti o più generici indicatori di anomalia prima che si trasformino in condotte illegali, ma anche perché può contribuire ad una più ampia diffusione della cultura della legalità all’interno dell’ente.
In tal modo quello che potrebbe essere visto un costo per l’organizzazione in termini di risorse economiche ed umane necessarie a garantire un adeguato livello di conformità all’interno dell’ente (costi di consulenza, per l’implementazione di piattaforme dedicate alle segnalazioni, di formazione ecc.) si trasforma in realtà in un vero e proprio investimento “verso una migliore strutturazione societaria e una effettiva prevenzione non solo degli illeciti, ma anche di disfunzioni o frodi interne”.
Avv. Adamo Brunetti – Compliance Specialist
CEO & Co-Founder della CO.DE S.r.l.